La democrazia rappresentativa si fonda su due ordini di presunzioni.
La prima è che le maggioranze che si formano in seno alle assemblee elettive rappresentino la volontà dell’assemblea in quanto tale.
Più che di una presunzione si tratta di una finzione: gli organi collegiali, qual è il consiglio comunale, non hanno volontà propria, quindi se ne costruisce una artificialmente applicando il principio maggioritario.
L’altra presunzione, più impegnativa, è che la volontà dell’assemblea rappresenti l’opinione pubblica, almeno quella prevalente.
Il consiglio comunale di Terni è un’assemblea democraticamente eletta.
Fino a prova contraria, quindi, dobbiamo presumere che il voto del consiglio comunale di lunedì, che ha respinto la proposta d’iniziativa popolare promossa da radicali, Civiltà laica ed UAAR, volta ad istituire il registro comunale dei testamenti biologici anche a Terni, rappresenti l’opinione pubblica prevalente, il “comune sentire della città”, come piace dire a qualcuno.
E’, tuttavia, una presunzione iuris tantum, come direbbero i giuristi: ammette prova contraria.
L’ordinamento è consapevole dell’artificio sottostante alla presunzione ed offre lo strumento per far prevalere comunque la volontà dei rappresentati su quella dei rappresentanti, quando questi si dimostrano infedeli.
Lo strumento giuridico per dare la “prova contraria” della coincidenza fra volontà popolare e volontà del consiglio comunale è, nel nostro ordinamento, uno e uno solo: il referendum.
Il consiglio comunale, con atto politico, ha espresso quella che per ora va ritenuta la volontà dell’opinione pubblica.
Siamo sicuri che l’assemblea sia stata infedele.
All’opinione pubblica maggioritaria in città non resta che rispondere con un atto politico, utilizzando l’istituto che l’articolo 11 dello statuto mette a sua disposizione.
Tutto il resto, senza il compimento di quell’atto, sarebbe meno che inutile.
Massimiliano Bardani