Il sindaco di Roma Gianni Alemanno, aprendo, il 5 marzo scorso, i lavori di Fattore D – prima conferenza nazionale del PdL su lavoro e occupazione femminile – ha parlato dei recenti casi di stupro avvenuti nella capitale.
Alemanno ha sostenuto che «se c’è un problema di violenze sessuali nel nostro Paese» ciò dipende «dalla cultura consumista ed edonista che ha presentato il sesso e l’amore come una merce da consumare. Noi crediamo nei valori della famiglia e nel rispetto della persona umana – ha continuato – e dobbiamo contestare questa cultura nata quando il radical-progressismo ha imposto valori materialisti sradicando i valori tradizionali della nostra società».
La prima cosa che colpisce è il livello di semplificazione storica e di qualunquismo che trasudano dalle parole del sindaco. L’idea generale, alla quale Alemanno sembra rifarsi, è quella di una situazione idilliaca (collocata in modo incerto nel tempo e nello spazio), nella quale all’improvviso irrompe – come deus ex machina – una “forza” radical-progressista (anche questa di origine, forma e unitarietà incerta) a «sradicare» degli altrettanto imprecisati «valori tradizionali».
Alemanno cancella con un colpo di spugna la lunga stagione delle conquiste sociali successive alle rivendicazioni degli anni Sessanta e Settanta, la progressiva secolarizzazione della società, il cammino intrapreso verso l’allargamento dei diritti.
La seconda cosa, forse ancora più grave, riguarda le conseguenze logiche implicite in una tale “revisione” della storia. La prima tra queste è che le colpe della violenza sessuale subìta vengono, in modo sottile, a ricadere proprio sulla vittima.
Il messaggio “tra le righe” di Alemanno non può sfuggire a un pubblico attento. Tutto ciò che le donne hanno guadagnato attraverso le loro battaglie sociali “sembra spiegare”, per il sindaco stesso, la supposta maggiore incidenza della violenza sessuale sulle donne.
Ma la storia è un’altra. Ed è una storia nella quale le donne hanno da sempre subìto violenze, con ogni probabilità peggiori di quelle di cui veniamo a sapere ai giorni nostri. Si trattava più spesso di abusi privati, che si consumavano tra le mura di casa, all’interno della cerchia di familiari e amici. Si trattava, soprattutto, di una violenza socialmente accettata, sorretta da un ipocrita sistema di significati nel quale la donna aveva due possibilità di scelta: subire o “perire”. Solo per fornire un elemento di riflessione si ricorda che il cosiddetto «reato d’onore» (che consentiva delle attenuanti al coniuge che uccidesse, per vendetta, il coniuge adultero), è stato abrogato, in Italia, nel 1981. Naturalmente il coniuge “autorizzato all’omicidio” si rivelava essere il marito nella grande maggioranza dei casi.
La differenza sostanziale tra le violenze di ieri e le violenze di oggi è il loro acquisito status di “fatto pubblico”. La violenza su una donna riguarda tutte le donne e solo in virtù di questo fondamentale passaggio dall’ambito privato a quello pubblico il problema viene finalmente gestito dalle istituzioni: prevenuto, combattuto, stigmatizzato, condannato.
Le parole del sindaco sono irresponsabili. Incitano sottilmente a una percezione distorta del fenomeno. Ti vesti in modo provocante? Sei promiscua? Allora se ti capita qualcosa di brutto un po’ è colpa tua.